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La Gioconda: Un Enigma Avvolto nella Storia e nella Leggenda

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Il dipinto più iconico del Rinascimento, La Gioconda di Leonardo da Vinci, non è solo un capolavoro artistico, ma anche un mistero avvolto in una fitta trama di storie e ipotesi. Al centro di questo intrigo c’è Lisa Gherardini, conosciuta come Monna Lisa, moglie di Francesco del Giocondo, un mercante fiorentino. La sua figura è diventata parte integrante della storia dell’arte grazie alla celebre opera, ma la verità sul suo ritratto continua a sollevare interrogativi.

L’Origine del Ritratto

Il primo a suggerire che dietro il volto sorridente del dipinto si celasse Lisa Gherardini fu Giorgio Vasari, un noto pittore e biografo. Secondo le sue testimonianze, Francesco del Giocondo commissionò l’opera per celebrare la moglie, con il nome “Gioconda” che si riferisce sia a Lisa sia al suo cognome. Tuttavia, la questione rimane aperta: è davvero lei la donna ritratta?

Muse Alternative

Nel corso degli anni, sono emerse varie ipotesi riguardanti altre possibili muse. Tra queste, Isabella d’Este, marchesa di Mantova, è stata frequentemente menzionata, sebbene differenze nei tratti somatici e nel colore dei capelli pongano dubbi su questa teoria. Un’altra candidata è Pacifica Brandani, amante di Giuliano de’ Medici, ma anche in questo caso le incongruenze sollevano perplessità.

Il Destino del Dipinto

Leonardo da Vinci portò con sé La Gioconda in Francia quando si trasferì ad Amboise nel 1517, accettando l’invito del re Francesco I. Questo passaggio è stato oggetto di discussione, poiché la tela non fu consegnata al committente originario, suggerendo che non fosse stata realmente commissionata. Alcuni storici ipotizzano che l’immagine potesse raffigurare la madre di Leonardo, Caterina Buti del Vacca, o addirittura il maestro stesso.

La Teoria di Salaì

Una delle teorie più affascinanti riguarda Gian Giacomo Caprotti, noto come Salaì, allievo e collaboratore di Leonardo. Secondo lo storico dell’arte Silvano Vinceti, il volto rappresentato nella Gioconda potrebbe essere parzialmente maschile, suggerendo che Salaì, con il suo aspetto androgino, fosse l’ispirazione per il ritratto. Questa teoria si basa sulla lunga associazione tra Leonardo e il giovane, che seguì il maestro in vari viaggi e fu oggetto di molte opere artistiche.

Un Legame Complesso

Il rapporto tra Leonardo e Salaì è stato descritto come complesso. Leonardo lasciò in eredità al suo allievo metà di una vigna, e Salaì continuò a coltivare l’immagine del loro legame, sia come servitore sia come modello. Gli schizzi di Salaì, alcuni dei quali rappresentano angeli e figure androgine, mostrano quanto Leonardo fosse affascinato dal giovane.

Conclusioni

La Gioconda continua a essere un enigma affascinante. La figura di Lisa Gherardini è diventata parte della leggenda, ma le numerose teorie su chi sia realmente la donna ritratta rendono la storia ancora più intrigante. Che si tratti di un amore, di un’ossessione artistica o di un simbolo di bellezza, La Gioconda rimane uno dei dipinti più discussi e ammirati della storia dell’arte, capace di stimolare la curiosità e la riflessione di generazioni intere.

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SAI CHE… L’inquinamento dei super-ricchi e il futuro del pianeta?

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Un recente studio di Oxfam, intitolato “Carbon Inequality Kills”, ha messo in luce quanto i super-ricchi contribuiscano alla crisi climatica con le loro emissioni di CO2. Il report, diffuso in vista della COP29 che si terrà a Baku, rivela dati sconcertanti su come le abitudini di vita e gli investimenti dei miliardari stiano accelerando il riscaldamento globale e aumentando le disuguaglianze economiche e sociali.

Secondo il rapporto, i 50 miliardari più ricchi del mondo emettono, in media, una quantità di CO2 pari a quella che una persona con reddito medio produce nell’arco di tutta la sua vita, ma solo in 90 minuti di volo con jet privato o durante l’utilizzo dei loro yacht. Un dato che evidenzia come le loro attività di lusso abbiano un impatto devastante sull’ambiente.

Il report sottolinea che se tutti gli esseri umani inquinassero come l’1% più ricco del mondo, il budget globale di CO2 disponibile per mantenere il riscaldamento al di sotto dei 1,5°C si esaurirebbe in meno di cinque mesi. Una situazione insostenibile che pone l’intero pianeta sotto grave minaccia, con effetti devastanti in particolare per le nazioni più povere.

Tra le cause principali di questa impronta ecologica insostenibile vi sono i voli privati, i mega yacht e gli investimenti in settori altamente inquinanti, come il petrolio, l’estrazione mineraria e la produzione di cemento. Oxfam ha anche esaminato gli investimenti di questi miliardari, scoprendo che la loro portata inquinante è 340 volte superiore a quella generata dai loro spostamenti aerei e nautici.

Nel 2023, ad esempio, i jet privati dei super-ricchi hanno effettuato migliaia di voli, con un impatto ambientale impressionante. Solo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha visto i suoi due jet privati in volo per quasi 25 giorni nell’arco di un anno, producendo più CO2 di quanto un dipendente medio di Amazon emetterebbe in 207 anni. A contribuire all’inquinamento sono anche le imponenti flotte di yacht, come quelle della famiglia Walton, proprietaria di Walmart, che hanno emesso tanto carbonio quanto quello prodotto da 1.714 dipendenti Walmart in un intero anno.

Oxfam denuncia che le emissioni generate da questi super-ricchi non sono solo simboli di eccesso, ma una minaccia concreta per la sopravvivenza di milioni di persone, specialmente nei Paesi a basso reddito. Le disuguaglianze economiche, alimentate da questi stili di vita insostenibili, stanno infatti causando perdite devastanti in termini di PIL e produzione agricola, con impatti diretti sulla sicurezza alimentare e sulla vita quotidiana di milioni di persone.

In vista della COP29, l’ONG lancia un appello urgente ai governi di tutto il mondo: è necessario intervenire immediatamente con politiche fiscali per ridurre le emissioni dei più ricchi, come l’introduzione di tasse sui redditi e patrimoni degli ultra-ricchi, oltre a incentivare l’eliminazione dei consumi di lusso altamente inquinanti e a regolamentare le attività aziendali per ridurre le loro emissioni di CO2.

L’auspicio è che queste politiche possano non solo limitare l’inquinamento, ma anche garantire una maggiore equità nella distribuzione delle risorse, trasformando i modelli economici attuali in sistemi più giusti e sostenibili per tutti.

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SAI CHE… l’ADHD visto dalla prospettiva Māori?

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Nella cultura Māori, l’ADHD viene definito con il termine “aroreretini”, che si traduce come “l’attenzione va a molte cose”. Questa visione non etichetta le persone con ADHD come “diverse”, ma piuttosto celebra la loro capacità unica di raccogliere stimoli da più fonti contemporaneamente. È una riflessione che invita a vedere il disturbo non come una limitazione, ma come un punto di forza che alimenta creatività e intuizione, in contrasto con la visione occidentale che tende a focalizzarsi sulle difficoltà.

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è noto soprattutto per l’impatto che ha sulla vita di bambini, che spesso faticano a concentrarsi, controllare gli impulsi e gestire l’iperattività. Le difficoltà scolastiche e sociali che ne derivano sono comuni, ma questa visione alternativa proposta dai Māori offre una prospettiva innovativa. Invece di vedere il movimento costante della mente e la scarsa capacità di focalizzarsi come un ostacolo, la cultura Māori li considera come tratti naturali di una mente che esplora diverse direzioni, creando connessioni uniche.

In effetti, la definizione Māori di “aroreretini” riflette una mente che può sembrare distratta, ma che in realtà è altamente ricettiva e pronta a raccogliere e analizzare una molteplicità di stimoli e idee. L’attenzione che si sposta su molti fronti può essere una risorsa creativa, utile a cogliere dettagli che altrimenti potrebbero sfuggire. Questa visione, che pone l’accento sui punti di forza piuttosto che sui limiti, incoraggia una visione più inclusiva e positiva nei confronti della neurodiversità.

Le difficoltà associate all’ADHD, come la disattenzione, l’impulsività e l’iperattività, sono ben note, ma la cultura Māori invita a riconoscere le capacità creative che queste caratteristiche possono offrire. Le persone con ADHD, piuttosto che essere etichettate come problematiche, sono viste come individui con modalità differenti di pensare e interagire con il mondo. Questa visione valorizza l’originalità e la capacità di esplorare il mondo in modo non lineare.

Il termine “aroreretini” si inserisce in un contesto culturale che non solo riconosce la diversità, ma la celebra. Un’altra parola chiave della cultura Māori è “Takiwātanga”, che indica “il mio tempo e spazio”, un termine utilizzato per descrivere l’autismo e, analogamente, riflette un approccio che non stigmatizza, ma celebra le differenze come parte del mosaico umano.

In occidente, l’ADHD viene generalmente trattato come una patologia, con l’attenzione rivolta principalmente alla correzione dei comportamenti attraverso diagnosi, supporto educativo e, talvolta, farmaci. Tuttavia, la visione Māori ci invita a ripensare la neurodiversità e a considerarla una ricchezza, un punto di forza che arricchisce la società piuttosto che renderla più difficile da gestire. Questo approccio potrebbe contribuire a un cambiamento significativo nel modo in cui trattiamo e sosteniamo le persone con ADHD, promuovendo una cultura che celebra la differenza e incoraggia la valorizzazione delle qualità uniche di ciascun individuo.

Se da una parte la diagnosi di ADHD e il trattamento dei suoi sintomi sono un percorso importante per molti, dall’altra parte la visione inclusiva e rispettosa della cultura Māori offre una prospettiva che dovremmo imparare ad abbracciare. In fondo, come dimostrato dalla loro lingua e cultura, ogni individuo ha il potenziale di brillare a modo proprio, anche quando il mondo sembra non essere in grado di comprenderne le modalità di pensiero e interazione.

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SAI CHE… A Valencia volontari senza sosta per ripulire dal fango, con un po’ di musica per alleviare la fatica?

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In seguito alle gravi alluvioni causate dalle piogge torrenziali che hanno devastato la Comunità Valenciana, la risposta della popolazione locale è stata straordinaria. Migliaia di volontari, provenienti da tutta la Spagna, si sono riversati nelle zone colpite per dare una mano nelle operazioni di pulizia e recupero. Nonostante le difficoltà e la durezza del lavoro, che prevede la rimozione di fango e detriti dalle strade e dalle abitazioni, la solidarietà non è mai mancata.

Il cuore pulsante di questa mobilitazione è stato il coinvolgimento attivo di cittadini comuni, soldati e anche professionisti, come psicologi, che si sono uniti per offrire supporto fisico ed emotivo a chi ne aveva bisogno. I volontari, muniti di stivali di gomma, pale e molta determinazione, hanno affrontato il difficile compito di riportare la normalità in città e quartieri devastati dall’alluvione.

L’amministrazione locale ha saputo organizzare gli sforzi in modo efficace, attivando piattaforme digitali come Som Solidaritat, che permettono di coordinare le donazioni e l’offerta di aiuto. In queste piattaforme, chi desidera contribuire può offrire non solo materiali, ma anche la propria disponibilità umana. Le richieste più urgenti da parte dei comuni riguardano attrezzature per la pulizia, come guanti e occhiali protettivi, mentre la raccolta di cibo e abbigliamento non è necessaria al momento.

Mentre i lavori di recupero procedono a ritmo serrato, la situazione sanitaria resta una priorità. Le autorità sanitarie hanno sottolineato l’importanza di rispettare le misure di protezione, poiché il fango accumulato può essere contaminato e pericoloso per la salute.

Un momento particolarmente significativo si è verificato a Massanassa, dove l’artista Mike Churches ha scelto di fare una pausa musicale durante una delle fasi di recupero. Accompagnato dalla sua chitarra, ha intonato “Father & Son” di Cat Stevens, regalando ai presenti una boccata d’aria fresca e un attimo di sollievo nel bel mezzo di tanta fatica. La musica, che ha risuonato tra il fango e le macerie, ha avuto un effetto unificatore, facendo sentire la comunità più vicina e solidale. I residenti e i volontari hanno reagito con calore e gratitudine, apprezzando il gesto che ha portato speranza in un momento così difficile.

Questo episodio dimostra come, anche in situazioni drammatiche, l’arte e la solidarietà possano fare la differenza. Non è la prima volta che la musica diventa un mezzo per alleviare il dolore e dare conforto in momenti di crisi, come accadde in Emilia Romagna durante altre calamità naturali. L’iniziativa di Mike Churches, insieme all’impegno incessante di tutti i volontari, è la testimonianza che, nei momenti più bui, la comunità riesce a trovare forza e speranza anche grazie a piccoli gesti di generosità e bellezza.

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