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SAI CHE…Dopo la morte una parte del corpo che continua a vivere?

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ADN24

Il nostro corpo è veramente una comunità vivente, popolata da trilioni di microrganismi che svolgono ruoli vitali per il nostro benessere. Ma cosa succede a questa famiglia allargata dopo la nostra morte? La risposta è sorprendente.

Recenti studi in microbiologia ambientale hanno rivelato che i microbi non solo sopravvivono dopo la nostra dipartita, ma giocano un ruolo cruciale nel processo di decomposizione del nostro corpo, permettendo così il riciclaggio dei nutrienti per il sostegno di una nuova vita.

Dopo la morte, quando avviene la disgregazione cellulare, i prodotti risultanti diventano un nutrimento prezioso per i batteri simbiotici che normalmente abitano il nostro corpo. Senza il sistema immunitario che li controllava e senza l’apporto continuo di cibo proveniente dal nostro sistema digestivo, questi microbi si rivolgono a questa nuova fonte di sostentamento.

Dall’evoluzione, è plausibile che i microbi abbiano sviluppato strategie per adattarsi a un corpo in decomposizione. Devono sopravvivere abbastanza a lungo da trovare un nuovo ospite una volta che il loro attuale ambiente diventa inabitabile. In questo modo, in un certo senso, contribuiscono a una forma di “vita eterna”.

La scoperta del ruolo dei microbi nel ciclo della vita e della morte sottolinea ancora una volta l’importanza di questi organismi per il nostro mondo e per il nostro benessere.

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SAI CHE…il sonno ripulisce il cervello dalle tossine? ma una ricerca smentisce

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Il cervello umano, durante il sonno, è stato a lungo considerato come un sistema che esegue una sorta di “pulizia” tramite il liquido cerebrospinale, rimuovendo i prodotti di scarto accumulati durante il giorno. Tuttavia, una recente ricerca dell’Imperial College London pubblicata su Nature Neuroscience mette in discussione questa convinzione.

I neuroscienziati hanno studiato il comportamento del liquido cerebrospinale nei cervelli dei topi in tre stati differenti: mentre erano svegli, durante il sonno e sotto anestesia generale. Utilizzando un tracciante fluorescente, hanno tracciato il movimento del fluido dai ventricoli cerebrali attraverso le varie aree cerebrali.

Contrariamente alle aspettative, i risultati hanno mostrato che il movimento e il ricambio del liquido cerebrospinale diminuivano significativamente durante il sonno e sotto anestesia, con una riduzione del 30% e del 50% rispettivamente, rispetto ai topi svegli e attivi.

Questi risultati sfidano la teoria che il sonno serva principalmente a facilitare la pulizia del cervello dai rifiuti cellulari. Se i risultati si applicano anche agli esseri umani, ciò implicherebbe che il sistema di pulizia cerebrale potrebbe essere più efficiente quando siamo svegli e attivi. Questo richiede una revisione delle teorie sul ruolo del sonno e sul motivo per cui la mancanza di sonno potrebbe essere dannosa per la salute cerebrale.

La ricerca ha implicazioni significative per lo studio delle demenze, come l’Alzheimer. Esistono due ipotesi principali riguardo alla relazione tra il sonno e queste malattie:

La mancanza di sonno potrebbe favorire l’insorgere di demenze.Le difficoltà a dormire potrebbero essere uno dei primi sintomi di condizioni come l’Alzheimer.La nuova scoperta ridimensiona l’idea che il sonno sia cruciale principalmente per la rimozione delle scorie cerebrali, suggerendo che il legame tra il sonno e le demenze potrebbe essere più complesso e coinvolgere altri fattori.

La scoperta dei neuroscienziati dell’Imperial College London sfida le nozioni consolidate sul ruolo del sonno nel mantenimento della salute cerebrale. Questo studio invita a riconsiderare alcune delle teorie predominanti riguardo alla funzione del sonno e al suo impatto sulla prevenzione delle demenze. Ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere meglio questi processi e per determinare come mantenere al meglio la salute del cervello attraverso il ciclo sonno-veglia.

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SAI CHE…La Coca-Cola è nata quasi per errore? Doveva essere un farmaco

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Era l’8 maggio 1886, una calda e umida serata, quando il farmacista John Stith Pemberton, nella sua casa ad Atlanta (USA), sviluppò la ricetta della Coca-Cola utilizzando una caldaia di ottone. L’obiettivo iniziale del dottor Pemberton era quello di creare uno sciroppo a base di estratti vegetali e noci di cola (semi di un albero africano) per trattare il mal di testa.

Tuttavia, successivamente, il farmacista di Atlanta si rese conto che, mescolando lo sciroppo con la soda, la sua medicina si trasformava in una bevanda gradevole e dissetante. Così nacque la bibita più celebre al mondo, la cui formula segreta è ancora gelosamente custodita in una cassetta di sicurezza presso una banca ad Atlanta.

La prima versione della Coca-Cola includeva anche una piccola quantità di sostanza stupefacente proveniente dalla pianta di coca (cocaina), ma nel 1903 questa fu completamente eliminata dalle foglie attraverso un processo simile a quello utilizzato per decaffeinare il caffè.

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Come fa un aereo a decollare? Non è merito solo della velocità

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Gli aerei non decollano spesso con la massima potenza, poiché non è necessario e potrebbe addirittura essere controproducente. Di solito, gli aerei commerciali mantengono una potenza dei motori ridotta durante il decollo, utilizzando la quantità minima necessaria per sollevarsi in volo e, se necessario, abortire in sicurezza. Questo approccio è principalmente finalizzato a ridurre i costi: i motori, che possono costare da 5 a 40 milioni di dollari ciascuno, subiscono particolari stress quando operano alla massima spinta. Limitando la potenza durante i decolli, si estende il tempo tra le costose revisioni e si prolunga la durata utile del motore dell’aeroplano. Questa pratica aumenta anche la sicurezza, poiché una minore potenza dei motori riduce il rischio di guasti e migliora la manovrabilità dell’aereo in caso di malfunzionamento durante la fase critica del decollo.

L’uso della massima potenza è riservato solo a situazioni che lo richiedono. Prima di ogni decollo, i piloti devono determinare la spinta ottimale in base a vari fattori, tra cui la lunghezza e le condizioni della pista, la temperatura esterna, la forza e la direzione del vento, la pressione atmosferica e altri parametri. Questo approccio consente di risparmiare carburante, ridurre le emissioni e mantenere sempre elevati standard di sicurezza.

Un altro studio condotto dall’American Chemical Society ha evidenziato il potenziale impatto ambientale positivo derivante dal volo degli aerei a quote più basse. Secondo questa ricerca, se anche solo l’1,7% degli aerei volasse a una quota 600 metri più bassa, si potrebbe ridurre significativamente la formazione di scie di condensazione, diminuendo del 59,3% il loro impatto termico complessivo.

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