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Perché mangiare di fronte alla tv non è una buona abitudine

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Mangiare davanti alla televisione, al computer o allo smartphone è un’abitudine molto comune, ma potrebbe rivelarsi dannosa per la salute. I nutrizionisti mettono in guardia sul fatto che questa pratica porta a un aumento delle calorie consumate, il che può complicare la gestione del peso, specialmente per chi sta seguendo una dieta.

Il principale problema risiede nella distrazione. Quando ci si concentra su ciò che si sta guardando, è facile perdere il contatto con il momento del pasto. Questo porta a mangiare in modo automatico, senza prestare attenzione a quanto si sta effettivamente consumando. Di conseguenza, il cervello non riceve immediatamente i segnali di sazietà, che impiegano circa venti minuti per manifestarsi. Durante questo intervallo, è probabile che si continui a mangiare, portando a un eccesso di calorie.

Uno studio condotto dall’Università di Birmingham ha esaminato diversi lavori di ricerca su questo fenomeno, evidenziando come la distrazione durante i pasti influisca negativamente sul controllo delle porzioni. Quando il cervello è impegnato in altre attività, non riesce a elaborare i segnali di sazietà e si rischia di mangiare più del necessario.

Inoltre, l’abitudine di mangiare mentre si guarda la TV può incoraggiare il consumo di cibi meno sani. Spesso, si tende a optare per snack, cibi ricchi di grassi o zuccheri, che sono facili da mangiare mentre si è distratti. Questo porta a un circolo vizioso, in cui il cibo spazzatura diventa la scelta predominante durante le serate passate davanti allo schermo.

Per migliorare la propria alimentazione e mantenere un peso sano, è consigliabile dedicare tempo ai pasti, gustandoli con attenzione. Mangiare in un ambiente tranquillo e senza distrazioni aiuta a essere più consapevoli di ciò che si sta consumando e a riconoscere i segnali di sazietà. Creare un momento dedicato ai pasti, lontano da schermi e distrazioni, è un passo importante verso una dieta equilibrata e una vita più sana.

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Il ruolo strategico degli specchi negli ascensori moderni

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Negli ascensori contemporanei, è quasi impossibile non notare la presenza di uno specchio. Mentre la tentazione di dare un’occhiata al proprio riflesso è forte, la vera ragione della loro installazione è ben più profonda e strategica. In effetti, la scelta di dotare gli ascensori di specchi non è dettata dal semplice desiderio di abbellire lo spazio, ma da considerazioni psicologiche e pratiche volte a migliorare l’esperienza dei passeggeri.

Uno dei principali motivi per cui gli specchi vengono utilizzati è la gestione dell’ansia che molte persone possono provare quando si trovano chiuse in un ascensore. Per alcuni, il contesto di uno spazio ristretto e sospeso può generare sensazioni di claustrofobia e disagio. Invece di cercare di ridurre il tempo di attesa accelerando il funzionamento degli impianti, le aziende hanno trovato nella presenza di specchi una soluzione efficace per distrarre i passeggeri. Questo espediente sembra “accorciare” il tempo percepito all’interno della cabina, rendendo l’esperienza più tollerabile.

Inoltre, gli specchi creano l’illusione di uno spazio più ampio. Per chi soffre di ansia in situazioni chiuse, questa percezione può aiutare a mitigare il panico, fornendo una sensazione di maggiore apertura.

Un altro vantaggio degli specchi è il potenziamento del senso di sicurezza. La possibilità di vedere gli altri passeggeri e ciò che accade all’interno dell’ascensore contribuisce a ridurre il rischio di furti o comportamenti indesiderati. Questo aspetto è particolarmente importante in spazi pubblici affollati, dove la presenza di estranei può generare apprensione.

Infine, per le persone in sedia a rotelle, gli specchi offrono un aiuto pratico e funzionale. Consentendo di manovrare in retromarcia senza urtare gli altri passeggeri, facilitano l’ingresso e l’uscita dall’ascensore. Questa caratteristica è fondamentale per garantire un accesso più agevole e sicuro a tutti.

In sintesi, la presenza degli specchi negli ascensori non è solo una questione estetica. Rappresentano un elemento strategico che migliora l’esperienza dei passeggeri, rendendo il viaggio in ascensore più confortevole e sicuro.

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LO SAI CHE…1.500 anni fa la volpe era un animale da compagnia?

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Un recente studio ha riportato alla luce un aspetto inaspettato della storia della domesticazione degli animali in Argentina: 1.500 anni fa, la volpe potrebbe essere stata considerata un animale da compagnia, quasi come lo è oggi il cane. Questa scoperta è emersa dall’analisi di resti di una volpe, appartenente alla specie Dusicyon avus, rinvenuti in una sepoltura accanto a resti umani nella provincia di Buenos Aires.

La volpe non sembra essere stata trattata come un semplice predatore, ma piuttosto come un compagno degli esseri umani. Le indagini hanno rivelato che non c’erano segni di utilizzo della volpe come fonte di cibo, il che suggerisce un legame più profondo tra l’animale e le popolazioni locali. Infatti, il suo stato di conservazione indica che è stata sepolta intenzionalmente, suggerendo un rituale di commemorazione simile a quello riservato agli esseri umani.

Analizzando gli isotopi presenti nelle ossa, i ricercatori hanno scoperto che la dieta della volpe includeva alimenti consumati dagli umani, come il mais. Questo fatto lascia supporre che le volpi potessero essere nutrite dagli uomini o che si alimentassero dei loro scarti, suggerendo una forma di coabitazione e interazione che va oltre il mero predatore-prey.

Non è la prima volta che vengono trovati resti di volpi accanto a tombe di cacciatori-raccoglitori in Argentina. Questi ritrovamenti sembrano indicare che la relazione tra uomini e volpi fosse una pratica comune in quel periodo, offrendo uno spaccato affascinante della vita quotidiana delle società precolombiane.

Questa ricerca invita a riflettere sulla nostra percezione degli animali domestici e sul lungo percorso che ha portato il cane a diventare il “miglior amico dell’uomo”. In un’epoca in cui i legami con gli animali sono sempre più apprezzati, la storia della volpe come possibile compagna degli antichi abitanti della Patagonia ci ricorda che le relazioni tra uomini e animali hanno radici profonde e complesse.

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L’origine dell’espressione “ma questa è una bufala!”

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L’espressione “ma questa è una bufala!” è diventata parte integrante del linguaggio quotidiano, specialmente nel contesto delle notizie false e delle informazioni ingannevoli. Ma da dove deriva realmente questa frase e quale significato ha assunto nel tempo?

Le radici di questo modo di dire affondano nell’antica Roma, dove si era diffusa una pratica disonesta tra alcuni macellai. Questi venditori, per guadagnare di più, erano soliti spacciare carne di bufalo come se fosse carne di manzo o maiale, molto più costosa. Quando i clienti, ignari della truffa, si rendevano conto di essere stati ingannati, esprimevano la loro indignazione con l’esclamazione: “Ma questa è una bufala!”.

Con il passare del tempo, l’espressione è entrata nel linguaggio romanesco, evolvendosi in frasi come “Arifilà ‘na bufola”, che significa rifilare a qualcuno una fregatura. Questo uso popolare ha contribuito a consolidare il legame tra il termine “bufala” e l’idea di inganno o frode.

Nel corso degli anni, il significato di “bufala” si è ampliato per includere notizie o affermazioni che risultano false o esagerate. Oggi, quando qualcuno si riferisce a una notizia come a una “bufala”, sta sottolineando la sua natura ingannevole, richiamando così l’attenzione sull’importanza di verificare le fonti e di essere critici nei confronti delle informazioni che circolano.

In un’epoca in cui le fake news sono sempre più diffuse, riscoprire le origini di frasi come “ma questa è una bufala!” ci aiuta a comprendere come il linguaggio si evolva in risposta a pratiche sociali e comportamenti disonesti, rendendo la lotta contro la disinformazione un compito sempre attuale.

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